Balthazar l’asino che siamo

Dopo tutto, tutti veniamo al mondo con un raglio. E con un raglio ne usciamo, più o meno rauco, più o meno rantolo, a seconda di quanto riusciamo a trattenere con i denti l’aria. Tutto questo mi pare abbia un nome. Balthazar.

Era un ottobre di diciannove anni fa, il Filmstudio, un cinema d’essai tra i vicoli del quartiere romano di Trastevere, proiettava una retrospettiva del regista francese Robert Bresson. Tre proiezioni ogni giorno, a partire dalle cinque del pomeriggio, ricordo. Tra un film e l’altro, c’era giusto il tempo di uscir fuori a chiacchierare, a commentare, a fumare in Via degli Orti d’Alibert 1/c. Una sera, la terza proiezione fu Au hasard Balthazar. Storia della vita e della morte di un asino, ovvero, come ebbe a dire Jean-Luc Godard impressionato dal film, ‘il mondo in 90 minuti’. Quel giorno, la prima e la seconda volta uscii a fumare, la terza piangere. A piangere la vita e la morte di Balthazar. Anzi, uscii a ragliare.
Dalla millenaria simbologia cinese, indiana, assiro-babilonese, egizia, greco-romana, vetero e neo-testamentaria, fino a un ottobre qualsiasi di appena diciannove anni fa, l’asino attraversa i più ripidi territori dell’impervia storia dell’uomo, arrampicando i suoi zoccoli sulle pareti delle nostre mitologie e dei nostri retropensieri. Ogni volta portando un carico, il nostro peso, i nostri pesi. È il portatore. Portatore di divinità celesti e funeree, di Dioniso e dei papi, di messia e di scudieri erranti, di sacre famiglie e di adùlteri esposti al pubblico ludibrio in groppa alla bestia superdotata cara a Priapo, di condannati a morte e di morti, di feriti, di bocche da fuoco dell’artiglieria su e giù per i valichi e le creste delle montagne della Grande Guerra, che fu anche un’ecatombe di asini, come nei sacrifici ad Apollo del mitico popolo degli iperborei.
L’asino porta e dunque trasporta oltre il limite, oltre il confine, il margine, il bordo che è anche la demarcazione tra vita e morte, fuori e dentro, legale e illegale. E sulle cime di un confine muore Balthazar. Caricato di merci di contrabbando da due delinquenti, viene ‘fucilato’ dalle guardie di frontiera e lentamente, pacatamente, muore stendendosi tra un gregge di pecore, sfiorato da un agnellino, pasquale… Quasi fosse una protesi, una prolunga degli arti umani, lì dove le facoltà dell’uomo non arrivavano, arrivava l’asino: il vicario, la sentinella, il messaggero che si sporge al di là della linea estrema. Per questo fu anche assimilato a una bestia degli inferi. Guai per un egizio incontrare un asino rosso nel suo viaggio post-mortem; i geroglifici consigliano vivamente di piantargli un pugnale nella schiena per neutralizzarne i peggiori auspici.

Simbolo per eccellenza del transito, dall’Estremo Oriente l’asino è transitato per un quartiere di Roma al di là del Tevere: trans-Tiberim, Trastevere. Figura del passaggio, della soglia, l’asino è il portatore, ma è anche la porta stessa, …la porta di casa. Di casa mia.
L’indomani della visione del film, ancora molto scossa e spinta da non so cosa, entrai in un negozio e comprai un portachiavi a forma di asino, un pupazzetto di pezza, ruvido, scabro, grezzo, nient’affatto lezioso o grazioso, grigio-chiaro, zoccoli, criniera e coda neri. Sul vertice della testa aveva un anello. In quell’anello infilai tutte le mie chiavi: porte, portoni, porticine, lucchetti. Ogni varco della mia vita era presidiato dall’asino. Balthazar, il guardiano di ogni mio entrare e uscire, il ministro di ogni mio serrare e disserrare, la vedetta del mio sprangare e spalancare, il nume del mio partire e del mio tornare. Guardasigilli, guida nel buio, protettore nell’ombra ctonia delle mie cantine e nella penombra delle mie soffitte, da diciannove anni sta in tutte le mie borse: porta chiavi e mi riporta a casa.

O sono io che porto lui?
Chi di noi due porta chi?

È lui che mi sta dentro la borsa, o sono io che gli sto sottopelle come nella favola di Charles Perrault, Peau d’âne? La pelle d’asino che ci riveste, il camuffamento, la scorza bruta dalla quale, come una placenta, usciamo (dovremmo uscire) finalmente con splendide sembianze umane. Nella favola è così, il mantello bestiale cade e rivela il fiore della purezza pronta per andare all’altare sposa del principe. Altrove, ne Le Metamorfosi di Apuleio, il protagonista Lucio accidentalmente si trasforma in asino e, di tormento in tormento, di stadio in stadio, ritroverà infine la forma umana. Così Pinocchio, negli stadi intermedi del suo progresso ‘scritti nei decreti della sapienza’, metamorfizza in un asino e viene venduto al direttore di un circo in cui, povera bestia, si azzoppa, allora un nuovo compratore lo acquista per affogarlo in mare, scuoiarlo e farsi un bel tamburo con la sua pelle. Ma quando lo tira su dalla scogliera, se lo ritrova vivo e burattino, perché a scuoiarlo sott’acqua, divorandolo pezzo dopo pezzo, ci avevano già pensato i pesciolini mandati dalla Fata Buona: ‘quando i pesci ebbero finito di mangiarmi tutta quella buccia asinina, che mi copriva dalla testa ai piedi, arrivarono, com’è naturale, all’osso… o per dir meglio, arrivarono al legno, perché, come vedete, io son fatto di legno durissimo’. Di nuovo, l’asino muore, e morendo prepara il passaggio, il transito ad uno stadio ulteriore, finché il legno durissimo diverrà ‘un bel fanciullo coi capelli castani, con gli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose’. Pasqua: Pesach festeggia il transito, il ‘passare oltre’ la schiavitù degli ebrei in Egitto; la festa cristiana celebra la resurrezione dell’ucciso che libera dalla morte e redime la materia mortifera.

Piccola nota a margine: sul colle romano Palatino, è stato rinvenuto un graffito del III sec, in cui si irride il culto cristiano raffigurando Gesù in croce con una testa d’asino, una scritta in greco recita ‘Alexamenos sebete theon’, Alassameno venera [il suo] dio. Nel ritrarre il Cristo come un asino per deriderlo, l’autore del graffito ha (inconsapevolmente) inscenato proprio l’apoteosi dell’economia della salvezza, tanto più assoluta in quanto operata non dal Verbo che si è fatto carne, ma dal Verbo che si è fatto bestia e che in ciò redime non solo gli esseri umani, ma anche il più marginale e bestiale grumo di materia, l’asino ridicolo. Quel graffito dice il paradosso di una Pasqua che si avvera nel circo e viceversa.

Prima della sperata liberazione c’è la schiavitù del circo. Il circo delle nostre vite, in cui ci azzoppiamo e, forse, ci riconosciamo l’un l’altro bestiame in gabbia, eppure capace di qualcosa, forse capace di sguardo, forse di pietà.
Anche Balthazar viene comprato da un circo: ‘ed ora signore e signori abbiamo l’onore di presentarvi il cervello più potente del secolo!’, rullo di tamburi, musichetta disperante, entra in scena Balthazar con un grottesco pennacchio sulla groppa. Risolve l’operazione 834×3. Con la zampa batte a terra il risultato. 2502. Applauso.
Ma prima di entrare in scena, Balthazar era stato portato nelle stalle, a tirare il carro carico di fieno per sfamare gli animali da circo, e lì, una ad una, Balthazar guarda negli occhi le bestie in gabbia. Guarda la tigre, si sposta, guarda l’orso bianco, si sposta, guarda la scimmia in catene, infine guarda l’occhio dell’elefante. Uno sguardo per ciascuno, fisso, benedicente, quasi con gli occhi li spogliasse della buccia ferina e portasse alla luce la rosa in boccio nascosta dentro ogni creatura di tutto il creato, quel bulbo febbricitante seppellito sotto la bruta materia, quasi in mezzo a tutto quel letame vedesse una natività. Del resto siamo in una stalla e lui si chiama Balthazar e quell’eufonico motto ‘au hazard Balthazar’ veniva recitato dai conti di Beaux-de-Provence che si proclamavano discendenti del Re Magio. Con quell’occhiata Balthazar vede e vivifica l’anima del regno animale, in cui lo sguardo dell’asino ci riassume tutti. Noi compresi, noi che guardando quello sguardo ci riconosciamo fauna, selvaggina, preda nella grande guerra della storia, nella caccia grossa della vita.

Io quello sguardo l’ho visto, in un territorio di guerra, non una guerra grande, ma una guerra lunghissima. L’ho visto a Nablus, in Cisgiordania.
A Nablus mi accolsero bambini palestinesi che vendevano spazzole di plastica per vie affollate, carcasse di automezzi, magazzini, venditori appartati nell’ombra sfondata dei loro pergolati di lamiera, ai piedi delle palazzine che si arrampicavano lungo i fianchi della montagna sacra, il monte Garizim. La mia attenzione fu attirata da una pecora, piantata in mezzo alla strada, con lo sguardo rivolto verso la parte opposta al mio senso di marcia. Fissava qualcosa. Incuriosita anch’io mi voltai nella stessa direzione e incrociai lo sguardo di un asino, o meglio, di quel che ne rimaneva. Era morto, ma questo è niente. Dondolava sotto il portico di una macelleria, e anche questo è niente. Un gancio conficcato nel naso lo teneva appeso per aria, a dissanguarsi sopra a una tinozza che fermentava. Sì, perché nella macellazione rituale Halal, il macellaio, che giustamente deve essere preventivamente giudicato sano di mente, dopo aver reciso la gola alla bestia deve far sgorgare il flusso affinché la carne anemizzata diventi pura e mangiabile. Accanto all’asino, una pecora che l’aveva accompagnato nella stessa sorte, era lei che la pecora per strada fissava mentre veniva portata in quello stesso macello, che sembrava quasi celestiale nel suo rivestimento di piastrelle blu. Poco più in là, i resti di un cammello.

Un capogiro, come quello che ho adesso a ripensare e a ricordare quella progenie di svenati commestibili, esposti nel teatro anatomico della nostra fame, mi tolse il fiato e la parola, lasciandomi quasi niente, appena una specie di raglio.
Circhi, teatri di guerra, grandi guerre, guerre lampo, guerre lunghissime, anche io appesa, le mie cuoia, casa mia, ecco tutto, un raglio…

Uccidi e mangia

21 luglio 2018, Nablus

Una pecora contromano
da lontano fissa il suo cranio
accanto a quello
di un somaro issato per il naso
nel pronao blu reale
del macellaio sano di mente
di spalle col pugnale e non so quale
taglio di un cammello
scoppiato come
il copertone
del blindato

Sgocciolano come se piovesse ma non spiove
– fa’ spazio dentro al secchio al mio polmone –

E questa è Nablus
e questo è niente