La libraia felice di Monica Maggi

Mi sono accorta molto presto della poesia contenuta in fragili e sfumati corpi umani. Molto presto, esattamente dopo il mio arrivo al primo mercato municipale di Roma, precisamente al Tufello. Che poi oggi è molto in voga e ieri era lo spauracchio che i genitori sventolavano ai figli: se non studi ti mando al Tufello! Quel mercato oggi è sì sempre nella periferia romana, ha i muri dipinti con l’immagine di Gigi Proietti (era nato in quel quartiere) ma è diventato un po’ fighettino, come si direbbe in gergo.
Il mercato è stato una specie di grande contenitore, una vasca in cui sono arrivati profili che lì per lì mi sfilavano senza lasciare traccia. D’altra parte è nella natura stessa del mercato: un’agorà popolare e accogliente, un microcosmo dentro una grande città che urla, invece il mercato è protettivo, rassicurante, famigliare. All’inizio facevo solo il mio lavoro: prendere libri, donare libri. Poi però qualcosa è cambiato: come sempre, perché sono cambiata io.
È bastato fare qualche domanda sul perché quel libro, o quel fumetto, quel titolo chiesto per settimane e settimane fino a che non lo portavo trionfante. E poi sono iniziati gli abbracci, i sorrisi, i ritorni di persone che mi confessavano di attraversare Roma per venirmi a trovare, a fare due chiacchiere, ad ammirare quella specie di girotondo che si creava ogni volta. La gente, tanta. E le loro storie, tante, che sono sgorgate così dalla parola scambiata davanti ai libri.
Ho iniziato ad ascoltare i ritratti in poche parole di vite al bordo del vero. Madri e padri abbandonati dalla vita, donne centenarie con la grinta delle guerriere, operai in cassa integrazione che non mangiavano pur di comprare un libro, infermiere in corsa e affannate pur di passare da me, insegnanti, massaie, studentesse e studenti. Ad ogni figura dedicavo un ascolto al limite dell’ipnosi. Presto presto, mi dicevo, al massimo fai tre domande e senti, apri le orecchie e il cuore. E da loro arrivava a getto la poesia, quella vera, quella reale, quella fatta del “fare”.
Così sono nate le STORIE DI STRADA. Sono storie che mi vengono incontro, io non devo far altro che accoglierle e scriverle e mi rendo conto che potrebbero addirittura essere recitate come poesie vere. E per quanto riguarda la poesia classicamente detta, quella fatta di versi famosi, quella che va da Foscolo a Ungaretti passando per Mark Strand, Wislawa Szymborska o Patrizia Cavalli, me ne capita poca. I libri di poesia non vengono “abbandonati”, probabilmente chi li ha se li tiene. Quei pochi che arrivano e che metto sul tavolo (quelli che vado a prendere io nelle varie donazioni me li tengo perchè ..si sa) spariscono subito. La gente ama la poesia, se ne nutre in modo affamato, vorace e malinconico al tempo stesso. La gente scrive poesia, mi è capitato spesso di leggere versi scritti in quadernini stropicciati e pieni di parole fitte fitte. Me li portano in modo timido, un po’ appartato, mi chiamano da una parte e mi dicono “vuole leggere e dirmi cosa pensa?”. La gente scrive poesia e spesso è poesia tonda, piena, piccole fotografie della loro storie. Poi c’è anche chi mi chiede la poesia come terapia. E’ il caso di Antonio, fa lo psicoterapeuta e utilizza i libri che gli sto trovando per uno studio sul sacro femminile, sulla storia della Grande Madre, e mi chiede soprattutto poesia di donne di altre culture.
Adesso sono alla ricerca di poesia recente: parliamo del periodo 1970-1990. Da me vengono ragazze e ragazzi delle scuole superiori, incuriositi dalla produzione poetica post 1968. Confido nei prossimi “salvataggi”, perchè poesia fa rima con magia.