In quanto cantante, interprete e autrice, da sempre amoreggio con i versi e le rincorse notturne di parole – solitarie o gregarie. Ho iniziato a scrivere versi intorno ai dodici anni e canto da quando ne ho due. Nulla di particolarmente originale, succede a moltissimi, anche a chi non è destinato a diventare compositore o poeta, ma questi due frequenti passaggi ci dicono che ad arrivare per primo è sempre il suono, sia come primi contatti tra il feto e il mondo esterno, sia in quelli dei primi mesi extra uterini. Il Canto arriva di conseguenza, è la forma artistico-espressiva più immediata e universale e che non ha bisogno di tramiti per essere espressa : niente carta, penna, tela, nessuno strumento da suonare o da cui farsi accompagnare. Si può cantare anche senza saper leggere o scrivere ma successivamente, come è stato per me e per chi ha avuto fortuna – o sventura – di appassionarsi a queste faccende, la scoperta della parola e della sua potenziale forma poetica può far spostare la barra della prima vocazione – il canto e la bellezza infinita della musica pura – su una rotta tracciata da due stelle polari e non più da una sola. Non è ovviamente solo la mia storia ma l’incipit di quella di molti – cantautori, interpreti, compositori, poeti o scrittori – che si sono ritrovati nella forma chiusa ma anche apertissima della canzone d’autore e d’autrice, o della canzone d’arte.
Per quanto mi riguarda esistono poche esperienze artistiche più complete e gratificanti di quelle che danno la possibilità di godere di musica e parola nello stesso modo e allo stesso tempo. Si tratta di maneggiare materiali delicati e coperte corte realizzate sempre su misura: un approccio testuale che sia poetico ti toglie completamente dalla modalità del copia e incolla, esclude un testo di servizio, ti fa prendere la forma del mondo e, un po’ come nei live del jazz, di fatto costringe a un site-specific, a una complessità che se vuole farsi canzone deve aspirare a farsi universale e stare dentro un’appassionata volontà di comunicazione (uno degli esempi più fulminanti è di Luigi Tenco: “Mi sono innamorato di te / perché non avevo niente da fare”) .
Sono cresciuta con la Canzone d’autore e la prima emozione di incontenibile e sconosciuta commozione l’ho provata ascoltando “Balla Balla Ballerino” ( “Ferma con quelle tue mani il treno Palermo-Francoforte / per la mia commozione c’è uno ragazzo al finestrino / gli occhi verdi che sembrano di vetro / corri e ferma quel treno / fallo tornare indietro”) e del resto Lucio Dalla il rapporto con la poesia l’ha sempre tenuto strettissimo facendosi anche interprete e compositore di musiche per i testi di Roberto Roversi, dove troviamo canzoni come “Tu parlavi una lingua meravigliosa”, una vetta davvero poco eguagliabile (“Vorrei chiamarla, dirle, le volpi con le code incendiate / Non parlano, ma gridano pazze fra gli alberi per il dolore” ).
Tra i cantautori e cantautrici come tra molte e molti interpreti italiani e italiane sono tantissimi i nomi che la poesia l’hanno letta, scritta e dunque cantata, alcuni in forma più pura e di nicchia, altri in quella meno metaforica e più diretta. L’elenco è lunghissimo, mi limiterò a citare Milva, con il suo album dedicato alle poesie di Alda Merini musicate da Giovanni Nuti, così come anche Chiara Civello o Diana Tejera che hanno collaborato con Patrizia Cavalli, o Sergio Endrigo e la collaborazione con Gianni Rodari; e poi Franco Battiato, Fabrizio de André, Carmen Consoli, Cristina Donà, Niccolò Fabi, Ivano Fossati, Francesco Bianconi, Vasco Brondi, Iosonouncane…un elenco davvero sommario di artisti per i quali le parole sono importanti tanto quanto la musica e la cura del suono. E del resto la formazione poetica è davvero essenziale a un musicista o cantante.
La mia menzione speciale però non può che andare a Paolo Conte, al quale ho dedicato un intero album di canzoni arrangiate con orchestra d’archi. Paolo Conte che non ci pensava minimamente a essere considerato poeta, che fa abbaiare la campagna, che tiene la musica prioritaria ma poi ci fa esplodere intorno quel suo uso incredibile dell’italiano, che rapisce per accostamenti, storie, indizi sbocconcellati e mirabili a capo. Avrei potuto scrivere questo articolo solo citando le sue canzoni, ne cito cinque a caso perché davvero nel repertorio dell’Avvocato non si sa proprio da che parte girarsi: “Elegia” (“Guidavo nella notte ferma immobile / Friabile / Venivo da una valle dove annuvola / Nell’umido / Sentivo sulle spalle un bel solletico / Tu cosa vuoi da me?”); “Madelaine” (“E poi la strada inghiotte subito gli amanti / Per piazze e ponti ciascuno se ne va / E se vuoi, laggiù li vedi ancora danzanti / Che più che gente sembrano foulards”); “Come mi vuoi” (“Dammi un sandwich e un po’ di indecenza / e una musica turca anche lei”); Boogie (“Era un mondo adulto / si sbagliava da professionisti); “L’incantatrice” (“Guidavo piano quel giorno sull’ottovolante dei secoli / dei millenni del freddo del fuoco del vento degli attimi / era estate e ho sentito l’inverno arrivare dagli angoli / da tutti i mille spifferi de Nord”).
L’argomento è di tale portata universale e interconnessa nelle sue evoluzioni che non è possibile citare solo la canzone d’autore di casa nostra.
La Musica vocale da Camera è l’antenata colta della canzone d’autore più attinente alla poesia, sia per durata che per approccio alla struttura e al tipo di vocalità alla quale è rivolta (più colloquiale e meno epica rispetto a quella operistica). Abbiamo esempi in Francia (Maurice Ravel che mette in musica Stéphane Mallarmé, Claude Debussy che si occupa dei simbolisti), in Italia (Francesco Paolo Tosti ha fatto fortuna con molte liriche di Gabriele D’Annunzio, musicate anche da altri compositori del ‘900 come Ildebrando Pizzetti) ma è la liederistica tedesca a imporsi in termini di bellezza e contemporaneità. Grandi poeti del Romanticismo si prestavano ad altrettanti giganti della composizione che si appassionavano spesso ad alcune liriche specifiche. Un caso da citare è una delle liriche di Goethe dedicate al personaggio di Mignon nel romanzo di formazione “Wilhelm Meister”. Mignon è una bambina prossima all’adolescenza, un urkind, che canta le canzoni della nostalgia danzando sulle uova. La lirica “Nur wer di sensucht kennt” (letteralmente “Solo chi conosce la nostalgia”) è stata musicata da Ludwig Van Beethoven (1807), Franz Schubert (1815), Robert Schumann (1849), e Hugo Wolf (1888) fino ad arrivare alla versione precedente di Piotr Tchaikovsky (1869), davvero molto, molto vicina a una forma canzone. E’ un caso che è di per sé una summa poetica, ma anche riassuntiva di quanto la musica vocale da Camera “alta” ha lasciato come eredità.
La canzone popolare dialettale è l’altra antenata della canzone d’autore, quella del folk, delle ballate, quella che può avere più connotazione civile e sociale e qui l’uso del dialetto e dell’onomatopea è parte essenziale dell’autorevolezza poetica dei testi. Regina indiscussa di questo ambito, in Italia, è la canzone napoletana laddove il sentire popolare si sposa con il colto tramite quella che è a tutti gli effetti una lingua altra. Recentemente mi sono ritrovata a cantare quella meraviglia di “Scetate” (testo di Ferdinando Russo, poeta e giornalista) per innamorarmi di un verso dove il suono di un verbo e la sua immagine occupano tutto: “‘Ncielo se so’ arrucchiate ciento stelle, tutte per sta a sentì chista canzone”.
In Brasile il grande movimento della Bossanova non può fare a meno dei poeti per poter nascere. Un nome tra tutti quello di Vinicius de Moraes che scrive insieme a Toquino (e all’interpretazione di Ornella Vanoni), il disco capolavoro “La voglia, la pazzia, l’innocenza, l’allegria”, con Sergio Bardotti ad adattare in italiano le liriche del grande poeta. Un disco davvero imprescindibile per il connubio tra Canzone e Parola Poetica, che coesistono con pari intensità e bellezza.
Quello che il rock, il punk e il folk rock nordamericano degli anni ‘60 e soprattutto ‘70 hanno prodotto e inventato rispetto al connubio musica e poesia non è misurabile, da Patty Smith a Lou Reed, da Joni Mitchell ( da Both Side Now “Rows and flows of angel hair / And ice cream castles in the air / And feather canyons every where / I’ve looked at clouds that way” ) dall’adorato Leonard Cohen al Nobel per la Letteratura, Bob Dylan, questi artisti sono accumunati non solo tutti dal fatto di avere la parola poetica come collante alla pari della musica, ma da una prolificità e longevità artistica molto rara; nel jazz, intesa come musica spontanea e libera, si sono ritrovati Ginsberg e Kerouac che leggevano le loro opere accompagnati da musicisti, ma spoken word e rap sono generi tutti troppo spostati sulla performance legata alla parola (e allo slang), mentre qui il focus è proprio sul rapporto alla pari con la musica.
Per ultima ma non da ultima c’è una questione centrale, oggettiva, e che attiene molto più alla nostra Lingua che ad altre : la Lingua Italiana è già di per sé Musica, suona di suo. Ogni volta che vado a fare concerti all’estero (e che puntualmente mi sento dire “E’ bello sentirti cantare, ma sentirti parlare per noi è già Musica, non capiamo una singola parola ma non importa”) mi rendo conto di quanto sottovalutiamo il primato della nostra musicalità. Del resto è da lì che Giuseppe Verdi ha formalizzato l’indicazione dinamica dello staccato-legato che attiene al naturale raddoppio di consonanti tra una parola e l’altra, e che è una delle ragioni principali – fonolinguistiche – che vedono il Belcanto nascere in Italia e non altrove: in quel suono esiste un fluire di gloriosa bellezza dove, di nuovo, arriva prima il suono del suo significato. Per quanto mi riguarda, è questo un punto essenziale al fine della scelta di quali versi poter considerare potenziale canzone e quali no : se dei versi, densi, suonano già di loro, che senso ha aggiungere la musica e farne una versione paradossalmente didascalica? A questo si somma il fatto che l’accentazione prevalentemente piana della lingua italiana rende più difficile il trovare scappatoie poetiche che siano autorevoli quando si approccia alla scrittura di un testo che vada bene su musica data o su musica da scrivere. Insomma, scrivere testi per canzoni e doverlo fare in italiano, semplice non è. Ne va da sé che la presenza delle rime aiuta e risolva. Ma esistono casi in cui comunque, anche in presenza di rime, mettere in musica una poesia è di fatto come aggiungere il gorgonzola sul pecorino della carbonara. Perché?
A Vincenzo Mollica, che in una celebre intervista gli chiedeva se si considerasse più cantautore o più poeta, Fabrizio de André rispose “Benedetto Croce diceva che fino ai diciotto anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. Quindi io, precauzionalmente, preferirei considerarmi un cantautore”. In questa sintesi, schietta e prudente, coesistono gradazioni e spazi dove, anche se non è possibile definirsi poeti, certamente esistono margini di manovra sufficienti per potersi escludere dalla categoria dei cretini (o almeno, lo spero), dunque, per quanto mi riguarda precauzionalmente preferirei considerarmi una portavoce, soldatessa semplice della poesia.
Ilaria Pilar Patassini
Terra senza Terra
Credito fotografico: Paolo Soriani


