Ciao Luca. Da quando in quella maledetta notte di nove anni fa (tra il 4 e il 5 marzo 2016) ti hanno strappato via, in quel modo atroce, con quella ferocia inaudita, il mondo mi fa decisamente più paura. Da sempre, come uomo e come docente, ho scelto l’amore e la vita. Il desiderio consapevole di costruire. Gli sguardi timidi e lungimiranti, di voi ragazzi. Il riuscire a ottenere, ma sempre attraverso l’impegno, la costanza, il rispetto e la fatica. La violenza mi fa schifo e mi fa orrore. Qualunque sia e in qualunque modo, sempre. La violenza è la cosa più squallida e inaccettabile. È lo scempio dei miti e degli indifesi. È squallido e inaccettabile chi semina morte. È squallido e inaccettabile chi riesce a sporcare di fango persino l’immagine della vittima appena uccisa. Chi confonde la vittima col carnefice è squallido e inaccettabile, sempre. In quello splendido libro che è il Siracide sta scritto: “Piangi meno tristemente per un morto, perché la vita degli stolti è molto peggiore della morte!”.
La valanga inaudita dei colpi che sono stati inferti al tuo corpo (107 lesioni complessive, secondo i referti, tra fendenti di un coltello a lama corta, tagli di un coltello da pane e svariati colpi di martello, concentrati sulla testa e sul torace) è la misura esatta del dolore di un padre chiamato a riconoscere il cadavere straziato del proprio figlio. È lo strappo che resta nel profondo. Un lutto inesauribile. Una ferita invisibile e profonda che ha portato papà Giuseppe Varani a raggiungerti proprio lo scorso novembre a seguito di una fulminante malattia, che purtroppo ha sottratto anche lui a mamma Silvana.
In quel palazzone di via Igino Giordani n.2 si è consumato un crimine inumano: il proprietario di casa, Manuel Foffo e il suo complice Marco Prato, dopo il loro sciagurato “festino” a base di alcol e droga (insieme da martedì 1 marzo hanno speso solo per quelle serate circa 1500 euro in cocaina), per assecondare i propri istinti, si sono dapprima aggirati come lupi, di notte, per la città, alla ricerca di qualcuno “a cui fare del male”; poi hanno inviato 23 messaggi identici per invitare conoscenti vari ad unirsi a loro; infine, la mattina di quel maledetto venerdì, dopo alcuni tentativi falliti, hanno scelto proprio te per la loro trappola mortale. Appena arrivato lì ti hanno imbottito di una dose di Alcover che avrebbe stordito perfino un cavallo. Poi lo scempio. La bestialità assoluta. Lo strazio del corpo. Secondo i medici sei morto intorno alle 9.30.
Cosa ti ha attirato lì dentro? Cosa ci sei andato a fare? Forse a prostituirti, come ha imbeccato il primo dei tuoi assassini. Forse ci sei andato nella speranza di riscuotere, di essere pagato. Ma non è questo il punto. Nicola Lagioia, che ha seguito da molto vicino la vicenda, trasformandola in un libro che toglie il fiato (La città dei vivi, Einaudi 2020) in un suo toccante reportage ha scritto: “Il punto è amare Luca qualunque cosa sia successo. Amatelo se per ingenuità ha commesso un errore. (…) Se verrà fuori che le cose sono andate come oggi credete sia impossibile, amatelo lo stesso. Accettate che oltre una certa soglia siamo sconosciuti gli uni agli altri, che chi ci è accanto può avere zone d’ombra, e non per questo possiamo smettere di amarlo. (…) Essendo riusciti a vedere in lui ciò che è essenziale, sarete forti di un amore che non verrà tradito”.
Ci siamo ritrovati più volte, più uniti del pensabile, a ricordarti. Professori, compagni di scuola e un numero incredibile di persone che si sono sentite toccate dalla tua tragedia. In tanti ci hanno regalato un pensiero, una preghiera, ti hanno portato un fiore. Abbiamo visto, invece, tremendamente divisi i tuoi carnefici. Hanno, da subito, scelto strade diverse: Manuel Foffo si è confidato proprio con quel padre che nei suoi deliri paranoici diceva di voler uccidere, ha deciso di confessare tutto e di scegliere il rito abbreviato, con una condanna a 30 anni da scontare a Rebibbia; Marco Prato, dal canto suo, si è imbottito di farmaci, poi raggiunto dai Carabinieri e dal 118 è stato portato all’ospedale Pertini. Ha scelto il rito ordinario, ma nella notte tra il 19 e il 20 giugno 2017 si è tolto la vita nel carcere di Velletri in cui era detenuto, poche ore prima dell’inizio dell’atteso processo, che avrebbe potuto fare un po’ di luce sulle reali cause della tua morte.
Un suicidio con diverse zone d’ombra, che ha riaperto la delicata questione del sovrappopolamento delle carceri italiane. A suo tempo, si è aperta un’indagine per istigazione al suicidio. Si è chiusa però la possibilità di sapere cosa Manuel avrebbe raccontato ai giudici per fare chiarezza sull’accaduto. Aveva dichiarato pochi giorni prima: “Voglio le udienze e le prove, riuscirò a dimostrare che io non sono un mostro, so di non aver impedito la morte di Luca, ma non l’ho ucciso io!”. Manuel Foffo, col passare dei mesi, ha invece cambiato più volte versione, reagendo sempre in maniera scomposta alle dichiarazioni del suo complice, affermando: “Lui è ‘na carogna. No io. Abbiamo fatto tutto in due. So’ disposto anche a farmi l’ergastolo, ma se lo deve fa’ pure lui!”. Non ti ha mai chiamato neppure per nome. Nei riti perversi di morte avrebbe esclamato senza un briciolo di pietà: “Amo’, questo ormai deve morì!”. Ti ha lasciato massacrato sul suo letto, coperto da un piumone, con un cavo elettrico attorno al collo. Per questo “ragazzo modello”, nel processo di appello si è chiesta una perizia medico-legale per accertarne la capacità di intendere e di volere. Per lui sono stati confermati i 30 anni.
Mi è stato più volte chiesto se ritenessi che fosse una pena equa per il reato commesso. Penso che, nel contesto processuale, fosse il massimo imponibile. La cosa che mi ha più impressionato, al di là della efferatezza con cui si sono avventati su di te, è il fatto che il tuo corpo senza vita sia rimasto in quella casa per giorni. Credo che se esiste l’inferno e i tuoi assassini hanno avuto un minimo di lucidità, lo abbiano vissuto proprio in quelle ore. Due giorni con quel peso sullo stomaco, non so davvero come abbiano fatto a sopravvivere.
A noi resta un senso di vuoto spaventoso. Anche oggi che i fiori, che nei primi mesi invadevano letteralmente la cappellina del cimitero di Prima Porta in cui riposi, si sono diradati. Ogni volta che posso vengo a trovarti, magari per portare sulla tua tomba un semplice ramoscello di olivo benedetto. La tua Marta Gaia è cresciuta, sta cercando di continuare a vivere, nonostante la ferita che si porterà sempre addosso. Ci regala parole che hanno il dono prezioso di tenerti vivo: “Oggi ho bisogno di ricordarti nel modo più semplice possibile. Bello, spensierato ed ora libero più che mai. (…) Mi lasci con la speranza di riabbracciarti un giorno. (…) Se avessi potuto fermare il tempo, lo avrei fatto per non perderti mai”.
Qualche volta, inevitabilmente, mi capita di avere dei rimpianti. Penso che se avessi continuato a frequentare la scuola tutto questo non sarebbe mai accaduto. Probabilmente se avessi avuto il cellulare scarico quella sera, magari ti saresti salvato. Ma sono pensieri che lasciano il tempo che trovano. Di certo, quel secondo banco a destra in classe, quando è vuoto, ogni volta mi fa scorrere un brivido improvviso e tagliente lungo la schiena e sento la voce strozzarsi in gola.
Ci manchi Luca. Ora che le luci si sono spente, ci teniamo stretti i tuoi occhi profondi e senza fine, le tue parole infinite e i tuoi sorrisi. I momenti belli che abbiamo condiviso. Proprio come quando, a scuola, arrivavi almeno mezz’ora prima, con il tuo “cavallo bianco” di marca giapponese, aprivi il portellone, e tiravi fuori l’immancabile pallone. Sai bene quanto mi piaceva, in classe, parlarvi di poesia e farvela leggere senza troppi filtri. Quindi ti saluto così:
Ogni uomo è una stella. Piena di ferite e di cielo.
Ogni parola è pioggia che batte sul seminato…
Ogni foto è un fuoco che ci consuma e ci protegge: il tuo sguardo, Luca,
ci attraversa ancora, ci saluta e ci riduce in schegge.
DAVIDE TOFFOLI